Pensavo che un proiettile facesse più male.
Invece è solo una fitta che non ti permette di fare movimenti. Devo semplicemente stare sdraiato qui per terra: se sto fermo non sento male. Stare sdraiati ha anche i suoi pregi: non ho mai visto New York dal basso, sembra ancora più alta.
Davanti a me c’è Central Park, e in questo momento mi trasmette ancora più pace. Già di solito è una scheggia di tranquillità nella follia di questa città, ma adesso, mi capirete, gradisco molto di più la calma del parco piuttosto che il caos, che so, di Chinatown.
Se proprio doveva succedermi questo, meglio che sia successo qui, sotto questo cielo strano e di fronte a questi alberi tra cui ho passeggiato spesso, soprattutto di domenica. Mi hanno sempre ispirato: sembra che dicano qualcosa, sembra che suonino. O forse è solo deformazione professionale.
Anche tutti i newyorkesi che ci camminano in mezzo, ci corrono, ci parlano, ci fanno l’amore, producono una musica, un suono fatto della vita di migliaia di persone.
Da questa prospettiva, anche il carretto degli hot dog che c’è all’angolo mi sembra grande, e mi sembra pure bello, il suo colore rosso mi colpisce gli occhi, mi tiene sveglio, quasi allegro.
E pensare che da quando vivo qui non ci ho mai mangiato. Ma d’altronde ho sempre avuto il sospetto, o l’allucinazione, di aver sentito miagolare dentro il barattolo da cui il gestore pesca i wurstel. Secondo me i suoi tacchini hanno i baffi e il pelo lungo.
Questa città è così: nasconde sempre qualcosa.
Credo sia bella per questo, perché dietro alle luci e ai grattacieli ha un’anima. Un’anima particolare però, costruita giorno per giorno dalla gente, da tutta la strana e disparata gente che la abita.
Sono venuto a vivere qui proprio per questo, per avere un mare di gente con cui confrontarmi, in cui mischiarmi, senza essere continuamente considerato una mosca bianca.
Dove sono nato io c’è il mare, e il mare ti isola, almeno il mare di Inghilterra. Non so neanche come ho fatto a conquistare il mondo partendo da dove sono partito: quando giravo la città in autobus con Paul, solo con la fantasia riuscivamo a vedere colorata la nostra grigia città, solo con i sogni che abbiamo fatto nelle nostre case, quando abbiamo iniziato a credere veramente che potevamo essere grandi.
Dove sei Paul, adesso? Non credo che ci vedremo più, ma forse sono venuto a vivere qui anche per scappare da te. Certo, in questo preciso momento capisco quanto bello sarebbe, adesso, poterti salutare: un semplice saluto, magari un abbraccio, senza rancore.
Siamo partiti insieme dal nostro porto, e adesso siamo diventati eterni. E allora, alla fine dei conti, poco importa di quello che mi succederà.
E comunque sono venuto qui a New York anch'io per isolarmi, per poter fare una passeggiata da solo senza che nessuno possa disturbarmi e possa farmi perdere il filo dei miei pensieri, delle mie speranze, delle mie poesie.
Anche oggi d’altronde, quando sono uscito di casa, volevo stare per conto mio, fare le mie cose, respirare l’aria fredda di dicembre, che qui a New York ti entra nelle pelle e nelle ossa, ma ti sfiora anche i sentimenti, ti riordina i sogni.
Ma questa città nasconde sempre qualcosa.
“Hey, Mister Lennon!”. Al mio ritorno, l’uomo mi stava aspettando sotto il palazzo.
Mi ha sparato cinque colpi di pistola.
Sta cominciando ad arrivare la gente, mi pare di sentire l’ambulanza. O forse è un sogno, perché mi sto addormentando.
Voi, ancora una volta, direte che sono un sognatore, ma io sono fatto così, e se sto veramente morendo, sono contento di farlo in questo modo: guardando Central Park, guardando il cielo di New York.
Lasciate che sia.
(da "Guida del mondo per gente strana", 2010)
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Wez (venerdì, 11 luglio 2014 18:33)
Bellissimo