Certi sogni hanno la data di scadenza. Ci sono momenti, nella vita, in cui ti guardi intorno e pensi: “Ok, questo l’ho fatto, e ora?” Ti trovi lì, un po’ smarrito, il tempo fermo, e ti chiedi se d’ora in poi potrà mai essere meglio di così. E spesso non lo sarà più, o sarà diverso.
A me è capitato quando ho incontrato Bono.
Durante l’adolescenza ho avuto due idoli: Michael Jordan e il cantante degli U2. Quando la passione per il basket è diminuita, è cresciuta quella per la musica, dal momento in cui, con un certo ritardo, ho ascoltato un live dello Zoo Tv Tour, la serie di concerti che ha seguito Achtung Baby. Sono rimasto folgorato: era melodia, bellezza, struggimento e romanticismo, era (ed è) tutto quello che vorrei essere io se fossi una canzone.
Michael, artista assoluto, miglior giocatore di basket di tutti i tempi, purtroppo non l’ho mai incontrato, ma Bono sì.
Era il marzo del 2001, l’anno in cui mi sono laureato. Dopo essere diventato l’ennesimo, inutile, dottore in giurisprudenza, ho preso un volo per New York e poi da lì, in un delirante triangolo, sono andato a Dublino, insieme a due amici. Uno di loro studiava In Irlanda e, per risparmiare due sterline, ci aveva trovato un appartamento senza riscaldamento in periferia, nel quartiere di Stillorgan, dove i nomi delle vie contengono tutti la parola “Stillorgan” e nemmeno i tassisti sanno riportarti a casa (eh sì, è proprio come se quelle vie non avessero nome): ti scaricano in un punto imprecisato del mazzo di strade tutte uguali e ti devi arrangiare.
La notte dormivo con il cappello di lana, ho fatto la doccia solo il primo giorno, e, dopo aver scoperto che in casa stavano rifacendo il tetto e quindi per lavarsi ci si denudava in mezzo al Nord Europa, non l’ho più fatta. Con il risultato che, dopo un paio di giorni, avevo i vestiti che camminavano da soli e i capelli di un playmobil.
E pensare che io a Dublino ci ero già stato due volte, perché me l’avevano resa romantica gli U2 e perché è una città che adoro per il suo modo fresco e brillante di trascorrere la vita: fai tutto quello che vuoi, ma alle sei entri in un pub, goodnight and God bless you.
Entrambe le volte ero stato in pellegrinaggio alla villa di Bono sulle scogliere di Killiney sperando di incontrarlo, ma quella è una cosa da ebeti principianti, come se Bono facesse entrare tutti i pazzi che si presentano al cancello di casa sua: “Prego, venite dentro, se volete posso anche consegnarvi degli affilati coltelli da cucina per tenermi in ostaggio e sgozzare i miei figli”.
Sarà stata la laurea, ma quell’anno ero più maturo ed efficiente. Il primo passaggio è stato al vecchio studio di registrazione degli U2, a Windmill Lane: anche quella è una scelta da fan disadattato, perché non è che se vai a Londra trovi più i Rolling Stones nella prima cantina lercia in cui hanno iniziato a suonare, ma quell’anno girava voce che la band avesse ripreso a frequentare quegli studi. Come tutte le voci sparse dai fan disadattati ovviamente era una bufala, e tuttavia entrammo negli studi, in modo più o meno clandestino. A quel punto, baciati dal destino per l’audacia, avvenne l’incontro decisivo: una specie di custode/guardiano ci beccò in flagrante, ci chiese chi diavolo eravamo e, invece di consegnarci alla giustizia, ci disse di essere stato in passato una delle guardie del corpo degli U2 durante i loro tour, ci disse che sapeva bene dove si trovavano a suonare e registrare, e che ci avrebbe portato lui, subito, in quel preciso momento. Questa è l’Irlanda: l’alcool è motivo di orgoglio nazionale, e i disadattati vengono incoraggiati.
E insomma l’ex-guardia del corpo ci fece salire in macchina e ci scaricò ad Hanover Quay, una via stretta lungo uno dei canali che si diramano dal Liffey: lì suonano gli U2, in quei bassi capannoni lungo il canale.
Ce ne accorgemmo subito dal fatto che da una finestra sentimmo provenire l’arpeggio iniziale di Where the streets have no name, che è l’equivalente, per un fan della Disney, di andare a Orlando, affacciarsi al castello del parco e vedere Cenerentola in carne e ossa che smadonna perché tutte le scarpe le vanno strette.
C’è anche una panchina davanti agli studi, piazzata apposta per i fan. Un cartello dice, più o meno: “se non rompete i coglioni, vi verremo a salutare”. E infatti c’era un ragazzo, uno venuto in giornata da Londra, che aveva gli autografi di tutti i componenti della band. Era ormai buio e il disadattato numero 4, prima di tornare in aeroporto, ci consigliò di ripassare la mattina dopo sul tardi: li avremmo trovati all’entrata, com’era successo a lui.
Il giorno dopo, alle undici, ci presentammo davanti agli studi. Il vento di marzo, a Dublino, è un rasoio che ti scartavetra la pelle, e dopo aver atteso invano più di due ore e aver perso la sensibilità a tutte le estremità del corpo, ano compreso, la saracinesca di un piccolo garage si aprì automaticamente. Da un’estremità della via, uno dopo l’altro, arrivarono in macchina Larry Mullen, Adam Clayton e poi The Edge. Credo che ormai seguano sempre la stessa sequenza dei concerti per ogni cosa che fanno, probabilmente anche quando vanno in bagno o in posta: Larry ritira il numerino, Adam fa la coda, Edge spedisce il pacco. I tre ci videro, ci salutarono dall’auto ed entrarono nell’edificio. Bello, certamente, ma non avevamo perso l’uso delle mani, dei piedi e degli sfinteri per un salutino da dietro il parabrezza.
Ma ecco che, come nei concerti, dalla parte opposta della via, arrivò una grande Mercedes nera: alla guida il manager degli U2, Paul McGuinness, e al posto del passeggero finalmente lui, Paul Hewson, detto Bono. Parcheggiarono alla cattiva sul marciapiede (ehi, c’era Bono in quella macchina, le regole stradali saltano al suo cospetto!) e scesero. Il cantante ci vide e venne verso di noi. Ecco, quello fu il momento in cui il sogno ebbe la sua data di scadenza.
“Ciao ragazzi”.
“Ciao”.
“Da dove venite?”
“Dall’Italia”.
“Dall’Italia? Così lontano? Grazie di essere venuti fin qua. Io adoro l’Italia”.
E insomma dai, non è che poi alla fine hai tante altre cose da dire alla tua rockstar preferita, né lui certamente ha tanto altro da dire a te, non è che potete mettervi a parlare delle scelte post-universitarie o dell’eterno dilemma more/bionde tette grandi/tette piccole.
“Possiamo fare una foto insieme?”
“Certo”.
Prima la fecero i miei amici, poi io. Mi avvicinai a Bono, che in buona sostanza è un simpatico nanetto a cui do 15 centimetri (e che, dalla cera, la notte prima aveva fatto una sbronza colossale, persino più di noi), e il rullino della macchina fotografica finì con quella foto. Era venuta? Non era venuta? Con i rullini non si è mai capito se erano le prime o le ultime foto a non venire. “Fuck!”, dissi, e Bono, sorridendo, fece per andare via. Ma proprio per niente, Paul. Figurati se mi tengo quel dubbio. Lo afferrai da una spalla e gli chiesi di farne un’altra. Lui rimase per un attimo stupito e interdetto, guardò se da qualche parte avevo quegli affilati coltelli da cucina, non li vide, e infine, rassicurato, fece la foto.
Quando, dopo qualche ora, rigiravo tra le mani la mia foto con Bono, non riuscivo a crederci: anni di canzoni cantate a squarciagola, sussurrate in silenzio, ballate di notte con le donne amate, associate a tantissimi momenti della mia vita, tutti racchiusi in quella foto. Ero contento, ma ero triste: in fondo, non vorresti mai che quello che hai mitizzato diventasse reale.
Non è un caso che, da allora, gli U2 non abbiano più inciso album davvero memorabili; non è un caso che io stesso non sia più stato un fan disadattato; non è un caso che sia riuscito a prendere tutto con più distacco, a volte persino con cinismo. E non parlo solo dell’attaccamento ai propri idoli, parlo della vita in generale.
Non è un caso, ma un po’ mi dispiace. Perché la vita è un equilibrio tra sogni che si realizzano e sogni che si devono ancora realizzare, ma tra la vita e i sogni, io scelgo i sogni, tutta la vita.
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