Siamo seduti al tavolo, e, aldilà di tutte le chiacchiere per lo più inutili con cui ci stiamo intrattenendo, posso certificare con sicurezza un fatto: le Peppinazzo bevono come secchiai.
Infatti, al momento non stiamo propriamente mangiando: diciamo che tra una bottiglia e l’altra ci arriva, molto saltuariamente, anche qualche pietanza solida. Ma non escludo che tra poco ci vengano serviti piatti fondi ricolmi di Amarone, da sorseggiare con il cucchiaio.
Non abbiamo neanche fatto in tempo a sfiorare le sedie con i glutei, che il proprietario del locale, un amico di Matteo, è arrivato entusiasta al nostro tavolo ed ha stappato con la sciabola una bottiglia di champagne, come se uno del nostro quartetto avesse appena vinto una corsa automobilistica. Fra i brindisi lanciati da Matteo, e la citata propensione da incipit della Traviata delle nostre ospiti, lo champagne è durato sul tavolo il tempo di un batter d’ali di farfalla, evaporato tra i nostri fegati. Poi un altro champagne, e poi un altro ancora, accompagnato dai sorrisi sempre più larghi e leggermente sghembi delle nostre commensali Peppinazzo.
Ora siamo alla carne ed il vino è diventato rosso, così come il volto di Matteo, il quale sta ridendo fragorosamente dopo aver confidato all’orecchio ad Antinisca qualcosa di, evidentemente, divertentissimo. Maddalena invece, con una nonchalance di cui le va dato atto, parlandomi di fatti attinenti alla sua poliedrica e frizzante attività lavorativa - qualcosa che ha a che fare con l’acrilico o roba del genere (devo dire che un effetto che l’alcool ha su di me è quello di farmi ascoltare ancora meno i vani discorsi di Maddalena, diciamo quattro o cinque parole in tutto per ogni frase, tipo “… unghie … acrilico … gel … impegnativo …”, e io “ah, sì, beh, certo”, e tutt’al più le do un innocente sbirciata ai seni largamente visibili attraverso il vestito color carne, che a questo punto potremmo anche definire il vestito color seno) - mi ha appena appoggiato una mano sulla coscia sotto il tavolo. Dopo di che mi dà una strizzatina alla coscia medesima, con l’altra mano getta il tovagliolo sul tavolo con un fare risoluto e definitivo, mi guarda negli occhi, con uno dei suoi mi fa l’occhiolino (e, se non erro, le cade sul tavolo un blocco di eye-liner di ragguardevoli dimensioni), e mi chiede di accompagnarla in bagno. “Va bene” rispondo io, sicuro.
Altro effetto che l’alcool ha su di me: farmi trascinare completamente dalla successione degli avvenimenti quali che siano, senza opporre alcun tipo di libero arbitrio, il quale infatti è restato tutto nel flute dello champagne.
Appena varcata la soglia dell’angusta toilette, Maddalena si avvinghia a me, quasi mi si annoda, e comincia a baciarmi in modo maldestro e forsennato come solo gli ubriachi sanno fare, in un trionfo di labbra sgangherate e lingue imploranti.
Quando, come un sommozzatore che emerge dopo aver tentato il record di immersione in apnea, lei si stacca dalla mia bocca per riprendere fiato, mi sussurra: “Mi piaci un sacco, Albi …”
Allora: innanzitutto nessuno l’ha autorizzata a chiamarmi Albi, come se ci conoscessimo dall’infanzia, e questa sua confidenza vorrebbe probabilmente preludere ad un’intimità di rapporti che ad una come Maddalena non concederò mai, dovessi morire di solitudine sul mio splendido divano; e poi non capisco proprio come questa si possa essere invaghita così tanto di uno che per tutta la sera non ha fatto altro che smozzicarle insignificanti assensi e constatazioni: “Ah, sì, beh, certo, molto interessante.” Altro che le difficoltà della conquista: basta una sillaba svogliata per conquistare ragazze come Maddalena. D’altronde non va dimenticato che questa ha come massima idea di uomo Devis Bortolòn, capocannoniere del campionato dilettanti.
Comunque sia, lei poi improvvisamente si stacca dalla mia bocca, anzi, potremmo dire che si stappa, visto com’era incastrata tra le mie labbra, e mi dice: “Tu aspettami qua.” Poi si volta di scatto, spalanca la porta che dà al bagno vero e proprio, e si dirige al water.
Mentre io penso che ora stiamo per addentrarci nei meandri di uno sfrenato feticismo, dove lei evacua in mia
presenza, ecco che invece alza la tavoletta della tazza, e, anche con una certa disinvoltura, vi vomita dentro con la potenza di un tirannosauro.
Dopo un attimo di comprensibile smarrimento, mi dirigo verso di lei e le chiedo se ha bisogno di aiuto. Lei, ancora piegata sul water, alza solo la mano a fermarmi, come un vigile ubriaco.
“No, no, tutto a posto, mi succede spesso quando bevo, adesso passa tutto”, riesce a far pervenire da qualche anfratto dentro di sé, con la voce che rimbomba tra le pareti di ceramica del water.
In effetti, dopo l’ultimo spasmo, Maddalena si ricompone come se niente fosse: ritorna in posizione eretta, si aggiusta i capelli, si dirige al lavandino, si bagna la faccia, dalla borsetta estrae il pennello Cinghiale, ripassa e stucca l’intonaco, dopo di che si gira verso di me abbracciandomi di nuovo, come se in questi stravaganti cinque minuti lei non abbia rovesciato le proprie interiora come sabbia in una clessidra, ma abbia colto margherite su
una nuvoletta. Si avvicina di nuovo per baciarmi, dicendomi ammiccante: “Beh, dov’eravamo rimasti?”
Tuttavia, dalla sua bocca ora promanano miasmi di succhi gastrici, muco, enzimi digestivi ed acido cloridrico, che mi investono con l’impeto di un uragano della Florida.
“Eravamo rimasti che hai vomitato l’anima” le rispondo io allontanandola da me, prima che un capogiro mi stenda a terra.
“Cos’è, non ti piaccio più?” fa lei, melliflua e piccata.
“Non mi piace il sapore del tuo pancreas, più che altro” ribatto io prendendola per mano e tirandola a forza fuori dal bagno, che qua adesso va a finire che mi tocca anche amoreggiare con gli zombie.