Il momento clou di ogni anno scolastico era la gita. Gli studenti digeriscono la scuola dell’obbligo e non vi si oppongono con sanguinose guerre civili solo perché sanno che faranno il loro viaggio d’istruzione.
Ovviamente in terza liceo l’evento era ancora più sentito: l’ultima gita doveva essere indimenticabile.
Le nostre proposte, che già gli anni precedenti erano mere utopie, quell’anno divennero totali assurdità. Le cito giusto per dare un’idea: io proposi di andare a New York (un’altra classe c’era già stata ed aveva dunque creato lo spropositato precedente); Giò disse Buenos Aires; Frank propose Hong Kong; Giorgione, Bombay.
In verità come ogni anno le varie proposte si scontravano con i compagni di classe dal presunto basso reddito e improvvisati bolscevichi a 18 anni (anche se magari il padre faceva il petroliere) che per principio non volevano spendere una fortuna per andare in gita. E nonostante vi fosse una maggioranza schiacciante a favore di qualche meta esotica, nonostante la maggioranza si offrisse di pagare la gita ai nullatenenti (mettendo in atto una disgustosa forma di elemosina), ebbene, nonostante ciò, alla fine si assecondavano sempre le richieste dei falsi indigenti, poiché bisognava preservare il supremo valore dell’unità della classe, anche se in verità in classe, su ogni altra questione che non fosse la gita, ci scannavamo con diletto senza che nessuno battesse ciglio.
Non solo si ascoltavano a pieno i due/tre finti poverelli, ma addirittura a loro veniva affidato il compito di organizzare la gita, perché d’altronde era loro compito trovare un’agenzia di viaggio in via di fallimento che ci facesse andare all’estero con un budget di settantamila lire ciascuno.
A questo punto le mete potevano essere solo paesi che uscivano dal comunismo più spietato, nei quali potevamo andare a fare la figura dei ricconi, per sentirci anche noi come i tedeschi quando vengono in Italia.
In terza liceo la meta fu Praga. Ovviamente con alloggio non certo dalle parti del centro (Praga 1), bensì nella più remota periferia (Praga 9), dove gli edifici non avevano le finestre, per strada rotolavano le balle di fieno e gli angoli bui erano teatro di duelli rusticani all’ultima coltellata fra spietati delinquenti.
Il viaggio fu devastante. Lo scarnissimo budget a cui ci avevano costretto i nostri compagni mendicanti prevedeva tredici ore di pullman da percorrersi di notte (per la verità l’idea di viaggiare di notte fu del Professor Lo Jacono che da buon italiano medio aveva il mito del viaggio intelligente, anche se poi viaggiare di notte è intelligente quanto cenare al mattino).
Or dunque, partenza ore 20, arrivo ore 9. Immaginatevi tutte le cose meno confortevoli che vi sono capitate
in vita, moltiplicatele per mille, shakeratele in un pullman antiquato, una sorta di incudine con quattro ruote, che negli altri giorni dell’anno era utilizzato per introdurre clandestinamente esponenti della mafia albanese in Italia, e avrete la fotografia del nostro viaggio.
Innanzitutto le anguste file di sedili del pullman lasciavano alle gambe e al busto un’autonomia di movimento di circa sedici centimetri, rendendo assai arduo il semplice stare seduti, figuriamoci il dormire.
Si potevano ruotare brevemente le ginocchia sfregiandosi le rotule sui sedili davanti, e al massimo era possibile girare la testa a destra o a sinistra rischiando però di limonare col compagno seduto a fianco o di leccare il finestrino lercio.
Insomma, ci si addormentava più per disperazione che per vero e proprio sonno. Peraltro quando ci alzammo per una pausa verso le tre del mattino, avevamo la schiena a forma di punto di domanda, i muscoli del collo duri come basalto, quelli delle gambe erano invece diventati di cotone idrofilo e camminavamo come Frankenstein dopo
una crisi di artrite.
Ci scaricarono in un autogrill tedesco, al confine col nulla, dove il torpore, l’alito vischioso di chi ha dormito male, gli occhi a mezz’asta e il nevischio che cadeva, ci faceva sembrare un branco di drogati in gita sulla Luna. Vagammo per l’autogrill, andammo in bagno, ci pisciammo sui pantaloni dalla stanchezza e tornammo in pullman alla volta di Praga, freschi come cadaveri di fiume.
Durante il viaggio guardammo cinque film dai fatiscenti televisori appesi al soffitto del pullman: al primo film eravamo entusiasti; al secondo eravamo un po’ assonnati e stufi; al terzo avevamo i testicoli nelle scarpe; al quarto avevamo perso sei diottrie da ciascun occhio a furia di guardare in quei piccoli schermi; al quinto deliravamo, e, al posto del film, sugli schermi appariva San Francesco che ammansiva il lupo.
Comunque in un modo o nell’altro arrivammo a destinazione. Come detto, a Praga ci trovavamo nella zona n. 9, quella dei tagliagole e degli scambi illeciti di organi umani, in un hotel della catena Ibis. L’hotel di tredici piani spuntava, con la sua aria da capitalismo irriverente e seriale, fra le macerie del comunismo, rappresentate da file di grossi palazzotti anonimi e polverosi, con portoni diroccati e finestre rotte.
Appena arrivati in hotel c’era l’ ulteriore italiano medio, nella fattispecie Giorgione, che estraeva dalla propria valigia un pallone da calcio. Era incredibile come Giorgione (e l’italiano medio in genere) avesse sempre con sé un pallone da calcio: piuttosto non si portava via i pantaloni e girava per tutta la gita in mutande, ma ci doveva essere in valigia lo spazio per il pallone.
Da perfetti ragazzi sguaiati ci mettemmo subito a giocare a calcio in corridoio organizzando al settimo piano dell’hotel, con i ragazzi della III^ A che erano venuti via con noi, una partita con due squadre da 18 giocatori ciascuna, dalla stanza 711 alla stanza 729. Dopo due pallonate Giovanni, con un potente cross al volo, colpì il soffitto in modo perentorio, e da lì si staccò un calcinaccio di sei chili che si frantumò a terra. Oltre a lasciare scoperto e del tutto pericolante il cemento del soffitto, il calcinaccio colpì in faccia di striscio un ragazzo della III^ A lasciandolo sanguinante sulle guance come la Madonna di Civitavecchia. Per farla breve: partita finita, deprecabile palleggiamento di responsabilità con frasi fuori luogo del tipo “se si perde, si perde tutti assieme” e “se non si può cambiare tutta la squadra si cambia l’allenatore”, e ore di discussione con la direzione dell’hotel cercando di spiegare in pseudo-inglese, ridicolo tedesco, improvvisato cecoslovacco e contorto linguaggio dei gesti, che il soffitto era già così quando siamo arrivati. D’altronde era molto plausibile che avessimo trovato il soffitto crepato e dilaniato con sotto una montagna di calcinacci alta più di mezzo metro.
Ma aldilà di questo episodio, il settimo piano dell’hotel si animava soprattutto di notte.
Ovviamente, da buoni diciottenni carichi di ormoni dai malleoli alle tempie, avevamo il mito di andare nelle camere delle ragazze e che succedesse quel che doveva succedere. Cioè niente.
Un’inveterata mania delle nostre compagne, così come di tutte le studentesse del mondo, era invece quella di dar vita a noiosissimi pigiama party. Essi consistevano in un coacervo di ragazze che si trovavano in un’unica stanza vestite con impietosi pigiamini raffiguranti orsetti e farfalline quasi fossero ancora delle innocenti bambine e invece avevano più o meno tutte già perso la verginità a 12 anni con un detenuto evaso dall’Ucciardone.
In questi party le nostre compagne inizialmente erano sovraeccitate, facevano battute stupidissime sui professori e si ammazzavano dalle risate per un nonnulla, poi subentrava la noia nonché una neanche tanto latente puzza di sudore per il sovraffollamento, le risate diventavano sbadigli, e dopo un’oretta il party si concludeva con saluti frettolosi fra le compagne che si ritiravano in camera a russare come granseole.
Noi ci guardavamo bene dal mostrarci in pigiama, un po’ perché avevamo dei mostruosi fisici ancora in crescita, un po’ perché indossavamo pigiami da ferrotranvieri degli anni ‘70 ereditati dai nostri cugini: piuttosto che farci vedere in pigiama passavamo tutta la notte coi vestiti addosso, comprese le scarpe che quando ce le toglievamo, alle sei della mattina, avevamo i licheni sui piedi.
Per il resto, al di fuori del pullman e dell’hotel, i due punti cardinali di ogni gita, quella fu il solito tourbillon di avventure scolastiche in una città come Praga: le visite controvoglia alla Reggia Imperiale e alla Basilica di San Vito; le interminabili passeggiate sull’imponente e massiccio Ponte Carlo a contrattare miseramente con i già poveri ambulanti, nonché a molestare pesantemente i piccioni residenti del ponte; le bevute nelle caratteristiche birrerie del quartiere di Mala Strana dove la birra costa meno di un’acqua naturale sgasata; lo shopping e le camminate partendo dalla grande e più moderna Piazza San Venceslao per arrivare ai vicoli e alle piazze tipiche della Città Vecchia; le serate nelle fatiscenti discoteche ceche, che erano poco più che vecchie mansarde, in compagnia dei professori i quali facevano i finti giovani e cercavano goffamente di ballare sudati come scrofe.
In generale, tutto quello che, una volta tornati a casa, ti fa pensare che, anche in quella landa cecoslovacca, hai lasciato per sempre un pezzetto della tua vita.
Scrivi commento
Roberto Maccadanza (mercoledì, 04 febbraio 2015 23:48)
Bravo come sempre!!!!!
Alberto (giovedì, 05 febbraio 2015 00:06)
Grazie Professore! Quando vuoi vengo al Maffei a parlare di come (non) si fa a diventa scrittori una volta usciti da quella scuola!