C’è l’avvocato nato per fare l’avvocato, che fin dall’età di tre anni vi era predestinato e non ha dubbio alcuno di aver scelto la professione della sua vita. Null’altro esiste per lui, se non il Diritto, i libri che parlano di Diritto, i giornali che parlano di Diritto (e per lui non resta che un commento deontologicamente non del tutto
specchiatissimo: che palle!).
C’è l’avvocato introvabile. Se lo chiami in studio non c’è mai, se gli scrivi un fax non risponde mai, se lasci detto di richiamarti non ti richiama mai. Il quesito che ci si pone in questi casi è: sarà impegnatissimo, o solo maleducato?
C’è l’avvocato che vuol fare sempre lo spiritoso, il simpaticone. Cerca ogni volta di fare battute ‒ per lo più con scarsi esiti comici ‒ sul mondo giuridico, e vuole dimostrarsi in consuetudine con tutti, dai giudici ai cancellieri, dai clienti ai colleghi (sì, perché dovete sapere che gli avvocati, tra di loro, pur con tutte le invidie, i rancori e gli individualismi, sono colleghi).
Per contro, c’è l’avvocato per nulla spiritoso, serioso e inquadratissimo, che non concede nulla alla divagazione, alla passione, al sentimento. Il suo modo di svolgere la professione è triste, pignolo, risentito e plumbeo.
C’è l’avvocato logorroico, nel parlare e nello scrivere. Per spiegarti al telefono la posizione del suo cliente ti tiene attaccato alla cornetta fino allo sfinimento, facendoti sudare il padiglione auricolare, e per rispondere a un
atto di citazione sfodera una comparsa di costituzione da ottanta pagine, dove affronta la questione di un’infiltrazione nel soffitto partendo dall’omicidio di Giulio Cesare.
C’è l’avvocato trafelato. In tribunale lo vedi districarsi tra mille udienze con un foglietto in mano dove si segna i rinvii come uno scribacchino, poi deve correre in cancelleria a depositare migliaia di atti e a fotocopiare tutto lo scibile giuridico. In studio ci sta 20 ore (di cui 16 collegato a Facebook). In generale, moderno Atlante, ritiene di portare il peso del mondo sulle spalle e invece non si rende conto di aver trasformato una professione intellettualmente stimolante nella routine di un anonimo travet.
C’è l’avvocato sostenuto e risoluto, convinto di avere sempre in bocca la soluzione perfetta e la ragione che gli sgorga naturalmente da ogni orifizio. Vuole apparire come uno in gamba, uno vincente, ma il suo puntare solo sull’apparenza è una delle piaghe purulente della nostra professione. Costui facilmente lo vedrete in televisione a dissertare sulla sicura bontà delle proprie tesi, tuttavia di solito un avvocato del genere vince nel tubo catodico, ma perde in tribunale.
In conclusione, ritengo di potervi fornire qui di seguito un piccolo prontuario, una specie di filastrocca che potrete attaccare sul frigorifero con un magnete e utilizzare quando vi servirà riconoscere un bravo avvocato.
L’avvocato che vi dice che vince, perderà.
L’avvocato che vi dice che ha ragione, non ce l’ha.
L’avvocato che vi dice che è bravo, non lo è.
Un bravo avvocato non ha bisogno di dirlo, né di sentirselo dire.
E il principe del foro è come quello azzurro: non esiste.
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