Se è vero che le cose più importanti succedono al tramonto, è anche vero che, più o meno alla stessa ora, in un bar entrano i pazzi. O meglio, entrano quando il locale sta chiudendo. Disperati che vogliono un amaro prima di cena, barboni che con venti centesimi e un vecchio gettone del telefono vorrebbero ordinare tre bicchieri di prosecco e quattro polpette (e, come ricatto, minacciano di toccarle con mani luride), grasse turisti inglesi con la pelle scottata dal sole (le turisti inglesi hanno la pelle scottata dal sole in tutte le stagioni dell’anno, anche quando è dicembre e fuori nevica) che devono correre in bagno, dove, naturalmente, perderanno il senno. Oppure quella categoria di persone che io non capirò mai, forse soli, forse disadattati, forse semplicemente idioti: quelli che passano davanti al bar, guardano dentro, vedono le sedie girate sui tavoli e la luce spenta, e spingono la porta di ingresso per entrare, mossi da un imperativo di cui non comprenderò mai l’irrazionale fondamento. E anche se spingendo la porta, questa resta ferma perché evidentemente chiusa a chiave, loro, invece di desistere, spingono più forte, fino a diventare rossi in viso per lo sforzo. Poi alzano lo sguardo attraverso la grande stella sulla porta, vedono me dietro il bancone che li fisso con le braccia conserte, e, con faccione stupite, scandiscono da dietro il vetro della porta: “È chiuso?”. No, no, è aperto. In questo locale, quando è aperto, teniamo la porta chiusa a chiave, le sedie sui tavoli e le luci spente.
Al Bar Star c’è poi un particolare affezionato dell’ora di chiusura. Non so se lo faccia apposta o soltanto per prendermi per il culo, fatto sta che c’è un omone alto circa due metri, con un bel viso rubizzo e grandi baffi, vestito con capi stazzonati, che ogni volta che sono prossimo a chiudere, a qualsiasi ora sia la chiusura (ho sempre avuto la sensazione che mi spiasse, acquattato da qualche parte ad aspettare il momento giusto per entrare), lui puntuale irrompe nel bar e, con voce profonda, chiede perentorio: “Gelati?”. Non mi chiede un gelato in particolare, chiede innanzitutto la disponibilità di non meglio precisati gelati.
Al che io, in quella che è diventata ormai una sorta di pièce teatrale, esco dal bancone, apro il frigo, prendo il primo gelato che mi capita e glielo lancio. Lui lo afferra al volo, ringrazia, mi lancia a sua volta una moneta da due euro e poi esce, tronfio con il suo gelato in mano.
(da Le Addizioni Femminili)
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