Se dovessi indicare un momento preciso in cui il Bar Star cambiò passo, il momento in cui la mia mano cominciò a tremare di meno, potrei dire che fu un giorno di qualche settimana prima in cui una Mercedes nera si fermò davanti al bar. Scese un uomo basso, con una coppola calcata sulla testa, grandi occhiali da sole, jeans sdruciti, la giacca di pelle e gli stivali di serpente. L’uomo mi chiese un caffè con voce bassa e profonda, con lo stesso tono con cui avrebbe potuto dire “a parte che gli anni passano, per non ripassare più”, e poi mi chiese dove fosse il bagno.
Io ebbi subito un concreto sospetto su chi potesse essere, anche se non potevo credere che la persona che avevo in mente io potesse comportarsi allo stesso modo di una turista inglese desiderosa di rubarmi l’asse del water, ma ogni dubbio venne fugato da due disadattate con una fascetta di Ligabue legata intorno alla fronte (e poi perché bisogna arrivare a perdere la dignità per il proprio artista preferito? Lui mica suona con la nostra foto disegnata sulle mutande), che alle quattro del pomeriggio aspettavano ansiose l’apertura dei cancelli dell’Arena, a trecento metri in linea d’aria dal mio bar.
Era una di quelle settimane in cui Luciano Ligabue occupava l’anfiteatro con sfilze ininterrotte di concerti: con l’orchestra, senza l’orchestra, con la band, senza la band, senza nemmeno lui e solamente con un mangianastri a riprodurre le sue canzoni (e anche in questo caso, i fan disadattati avrebbero riempito l’Arena per osannare quel mangianastri).
All’uscita dal bagno, il nuovo avventore venne accolto dalle due fanatiche con un sobrio “Ligaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!”, e fu così che, in spregio alla discrezione nei confronti dei clienti da me tanto decantata, ci ritrovammo tutti intorno al rocker, entrò perfino Gelati a salutarlo, per quel giorno dimenticando il nostro copione. Alla fine, con un sorriso molto tirato (per non dire con vero e proprio schifo), Luciano fu costretto a posare dietro il bancone per una foto di gruppo, schiacciato tra il mio braccio e quello ben piazzato di Gelati (che di fatto lo tratteneva lì a forza), mentre tutto il locale, preso dall’entusiasmo, intonava: “Siam quelli là, siam quelli là, quelli che vanno al Bar Star! Ta ta ru ra rà! Ta ta ru ra rà!” Poi io, sottovoce, gli chiesi all’orecchio se per caso in bagno mi avesse fregato qualcosa, ma a causa della confusione lui non capì. Era tutto delirio e sogni di rock’n’roll.
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